“Straordinaria gravità delle condotte criminose” che hanno “letteralmente funestato il rapporto tra imprenditori, cooperative e politica, inquinando in modo sistemico i gangli della vita amministrativa della città di Roma”. Sono queste alcune delle parole scelte dai giudici della terza sezione penale d’appello di Roma nelle motivazioni della sentenza con cui hanno anche confermato la condanna di primo grado a 6 anni per l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno per corruzione e finanziamento illecito nell’ambito di un filone del processo “Mafia Capitale”.
I giudici evidenziano il “degrado e la distorsione dell’attività della pubblica amministrazione che emergono a piene mani dagli atti del processo”, che fanno ritenere alla Corte “che il complesso delle prove assunte, acquisite ed utilizzate dal giudice di primo grado (prove orali, prove documentali, intercettazioni telefoniche ed ambientali) dimostri in maniera evidente la colpevolezza di Alemanno in ordine ai reati contestategli”.
“All’indomani della sentenza della Suprema Corte – si legge nelle motivazioni – l’attenzione generale è stata focalizzata sull’esclusione del reato di cui all’articolo 416 bis e della corrispondente aggravante ‘mafiosa’ contestata, esclusione che è stata diffusamente spacciata come il più rilevante risultato dell’accertamento giudiziale. È invece rimasto in secondo piano, e spesso ancor più nelle retrovie, ciò che di inaudita gravità è emerso ed è risultato provato nel procedimento principale, ossia l’esistenza di due associazioni a delinquere, almeno una delle quali (quella che faceva capo a Salvatore Buzzi e Massimo Carminati) impegnata nel più rilevante sistema corruttivo mai accertato nel territorio del Comune di Roma, con lo stabile e ben remunerato asservimento di pubblici ufficiali a tutti i livelli – meri dipendenti, dirigenti di servizi, consiglieri comunali ed assessori, dirigenti di aziende a capitale pubblico – agli interessi di Buzzi e delle sue cooperative”.